domenica 26 aprile 2015

L' impatto sanitario, sociale ed economico dell' influenza nei bambini







Emily,  la sorridente bambina nella foto, è deceduta per influenza nel 2004. Guardava la televisione in pigiama nel letto dei propri genitori, che avevano programmato una visita medica per il giorno successivo, ma improvvisamente è venuta meno all' affetto dei suoi cari. Non è un caso isolato. Solo nell' ultima stagione negli stati Uniti, dove Emily viveva, sono morti 128 bambini.

L' influenza rappresenta una patologia dalle rilevanti ricadute sul piano sanitario e causa ogni anno dai 3 ai 5 milioni di casi severi in tutto il mondo e 3-500000 morti. Nei paesi industrializzati le conseguenze sono rilevanti sul piano sanitario per l' elevato numero di ospedalizzazioni e di casi fatali che si registrano, in particolare nei soggetti con più di 65 anni. Gli ambulatori e gli ospedali spesso sono investiti,  durante i picchi di epidemia, da intensi carichi di lavoro che comportano un impiego ingente di risorse umane ed economiche, a scapito della gestione di altre emergenze sanitarie. Importanti sono anche le implicazioni sul piano sociale per gli alti livelli di assenteismo lavorativo e la perdita di produttività che ne consegue. Le ricadute nei paesi sottosviluppati, pur non quantificabili con esattezza, sono consistenti, con un impatto severo in termini di mortalità infantile. In uno studio del 2011 vengono stimati in 28000-111500 i decessi annuali legati all' influenza nel mondo in bambini con meno di 5 anni, il 99% dei quali si registra nei paesi più arretrati.

La maggior parte dei paesi ha in corso programmi di vaccinazione che generalmente sono rivolti ai soggetti anziani e a quelli portatori di fattori di rischio. Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza che i bambini rappresentano la principale sorgente di infezione per le categorie deboli, in quanto si ammalano in percentuali elevate ( fino al 30%), diffondono il virus in misura maggiore e per periodi più prolungati rispetto agli adulti, sono più a stretto contatto tra di loro e osservano meno le regole di igiene. Da questi presupposti hanno preso il via programmi di vaccinazione allargati che vedono nella vaccinazione universale estesa ai bambini un' arma potente per limitare la circolazione del virus e proteggere indirettamente le persone maggiormente a rischio. Diversi paesi hanno già abbracciato questa scelta, tra cui gli Usa, l' Austria, la Slovacchia, la Sassonia e, negli ultimi anni, l' Inghilterra. Altri paesi ( Canada, Finlandia, Romania, Estonia, Slovenia) hanno deciso di riservare l' offerta ai bambini più piccoli. Altri ancora, tra cui l' Italia, non danno nessuna indicazione in merito, in quanto ritengono insufficienti i dati a disposizione per poter affermare l' utilità e la convenienza sul piano del costo-efficacia di questi programmi. In effetti, rispetto agli adulti, le ricadute sulla popolazione pediatrica sono state oggetto di un numero molto inferiore di indagini, ma in questi ultimi anni qualcosa si è mosso  e hanno iniziato ad uscire dati interessanti. Da questi emerge chiaramente che i bambini non hanno solo il ruolo di “untori” nei confronti delle altre categorie deboli, ma sono spesso soggetti a complicazioni, talvolta gravi, con frequenti ospedalizzazioni e anche casi fatali, prevalenti nei bambini più piccoli ma che interessano anche soggetti di età scolare.



Incidenza di malattia



I primi studi risalgono agli anni 60-80 ed erano intesi a valutare soprattutto la morbilità, con una serie di valutazioni prospettiche e longitudinali in ambito famigliare o di comunità, in cui ai dati di sorveglianza clinica venivano associati i risultati sierologici e colturali. A Tecumseh, nel Michigan,  tra 100 e 300 famiglie con almeno un bambino sono state studiate continuativamente per un periodo di 6 anni dal 1966 al 1971. A Seattle, Washington, uno studio simile è stato realizzato negli anni tra il 1965 e il 1969  e poi tra il 1975 e il1979, coinvolgendo 215 famiglie. Questi studi e altri simili hanno messo in evidenza come il tasso più elevato di infezione riguardasse i bambini, con punte fino al 40%, mentre gli adulti non superano punte massime del 20%. In ambienti di tipo scolastico il tasso di infezione può toccare livelli fino al 50%. Un altro dato che è emerso già in quegli anni è l' elevato numero di soggetti sieropositivi anche in assenza di sintomi, almeno un 20-30% in più rispetto ai casi manifesti.

L' interessamento delle fasce dei bambini in età scolare rappresenta l' elemento di partenza e quello che maggiormente caratterizza l' epidemia di influenza, che progressivamente si estende alle altre classi della popolazione, con i bambini più piccoli e gli anziani che vengono generalmente colpiti per ultimi. Il ruolo centrale dei bambini nella propagazione del virus nell' ambito delle comunità in cui vivono è dimostrato dallo studio di Glenzen e Couch  che rivela anche come il picco di ammissioni per polmonite dei bambini preceda di ca 2 settimane un analogo picco da parte degli adulti.

La conseguenza naturale dell' alto tasso di infezioni è l' elevato numero di visite ambulatoriali. In uno studio di sorveglianza condotto negli Stati Uniti durante 19 anni consecutivi, si è riscontrato che il numero di visite pediatriche è tre volte superiore a quelle degli adulti, con 8.5 visite ogni 100 bambini al di sotto dei 17 anni.  Considerando i casi con diagnosi confermata di influenza, da uno studio della durata di 25 anni è risultato che, in bambini di età minore di 5 anni, le visite ambulatoriali sono state 9.3 su 100 nei bambini sotto 1 anno e 11 su 100 tra 1 e 2 anni. In un altro studio, sempre su bambini al di sotto dei 5 anni in differenti aree geografiche degli USA, le visite per influenza confermata rappresentano il 10,2 e 19,4% del totale delle visite ambulatoriali e il 5,9 e 28,8% delle visite di emergenza rispettivamente nelle stagioni 2002-03 e 2003-04  Il tasso più alto era relativo alla fascia 6m-<2a con 5.2-12.5 visite ogni 100. In uno studio prospettico della durata di 2 anni compiuto in Grecia nei bambini di età fino a 14 anni, durante le 4 settimane di picco le visite per influenza rappresentano il 40% del totale degli accessi ambulatoriali per malattie respiratorie e il 13,5% di tutte le visite del periodo  Durante la stagione 2008-09 uno studio su una popolazione di 21896 bambini sani del nord Italia ha riscontrato un' incidenza nei bambini di influenza con conferma di laboratorio pari a 9,6 su100. 



Ospedalizzazioni



I primi studi già dalla fine degli anni 70 fino  hanno messo in luce il grande aumento nelle ospedalizzazioni nei bambini più piccoli. In particolare è emerso  che il tasso di ospedalizzazione dei bambini con meno di 5 anni era alto quasi quanto quello degli anziani e che una parte considerevole delle ospedalizzazioni in questa fascia riguardava bambini in prevalenza sani. Due studi maggiori eseguiti negli anni 2000 hanno rafforzato queste osservazioni e il ruolo dell' età come fattore di rischio indipendente. In uno studio nel Tennessee  che ha esaminato 19 anni, si è visto che il tasso di ospedalizzazioni più alto si registrava nei bambini al di sotto di 1 anno, con una media superiore a 1000 su 100000 nei bambini sotto i 6 mesi.
Inoltre sono stati riscontrati tassi di ricovero maggiori nei bambini con meno di 2 anni rispetto alle persone con più di 65 anni. In California  il tasso nei bambini sani con meno di 2 anni è risultato essere 200 su 100000, simile a quello dei bambini di età 5-17 ad alto rischio, mentre nei bambini sani di quest' ultima fascia il tasso era del 90% inferiore. Un limite di questi primi studi è che si basano su dati clinici, in periodo di elevato livello epidemico, in assenza di un riscontro virologico. E' noto che altri virus, in particolare il virus respiratorio sinciziale, hanno un impatto significativo soprattutto nei pazienti più piccoli e questo potrebbe aver portato a sovrastimare il ruolo del virus influenzale. Una stima più precisa è stata ottenuta grazie a studi compiuti negli anni successivi. Il gruppo di Poehling  ha arruolato 2979 bambini seguiti per 4 anni dal 2000 al 2004, calcolando un tasso di ospedalizzazioni con conferma di avvenuta infezione in 90 su 100000 nei bambini fino a 5 anni, la metà delle quali ha coinvolto bambini con meno di 6 mesi ( 450 su 100000), l' 80% con meno di 2 anni. Lo stesso gruppo ha ripetuto un analogo studio negli anni 2004-2009 senza rilevare significative riduzioni nel tasso di ospedalizzazioni.  In Europa due studi hanno trovato valori sovrapponibili a quelli di Poehling ( Montes nel 2005 e Ajayi-Obe nel 2008). In aree dell' asia subtropicale, come ad Hong-Kong, i livelli di ospedalizzazioni risultano essere ancora più alti. Si è valutato anche l' impatto delle diverse tipologie di virus. In uno studio tedesco  il livello di ospedalizzazioni legate all' influenza A in bambini con meno di 1 anno è stato pari a 149 su 100000, mentre ad Hong-Kong  era da 2 a 7 volte maggiore a seconda della stagione e del ceppo circolante. Per quanto riguarda il ceppo B, nello studio tedesco il tasso di ospedalizzazioni nei bambini più piccoli è risultato essere maggiore, mentre ad Hong-Kong non si sono registrati casi nei bambini con meno di 2 anni nei tre anni dello studio.

In Italia, nel corso di due stagioni, è stata verificata una maggiore severità del virus H3N2 rispetto ai virus di tipo H1N1 e B.





Complicazioni



La più comune complicazione dell' infezione influenzale è l' otite media acuta, che si sviluppa nel 20-70% dei casi a seconda dei diversi studi, con un rischio più elevato nei bambini più piccoli. Il virus influenzale può essere responsabile direttamente del quadro infiammatorio come pure favorire l' azione dei batteri presenti nel nasofaringe.
Altra malattia che può essere conseguente all' influenza, soprattutto nei bambini più grandi è la sinusite.

La più importante complicazione nei bambini ospedalizzati è la polmonite, sia nei bambini precedentemente sani che nei bambini con malattie sottostanti. In un ampio studio di sorveglianza durato 5 anni, in soggetti di età 6m-17a ospedalizzati con diagnosi confermata di influenza, il 38% presentava evidenza radiologica di polmonite, con la frequenza più elevata nei bambini di età inferiore a 4 anni. 

Streptococcus pneumoniae e staphilococcus aureus sono i batteri che più spesso causano polmonite in bambini affetti da influenza. Più frequente nei periodi pandemici è la polmonite primaria, caratterizzata da rapida progressione di febbre, tosse e dispnea, seguiti dallo sviluppo di un quadro grave di insufficienza respiratoria (ARDS).

Un frequente riscontro nei bambini ospedalizzati, con un'incidenza maggiore rispetto agli adulti, è il coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Il quadro più spesso osservato sono le convulsioni febbrili: in diverse aree e studi l' incidenza è risultata pari al 3-20% e in alcuni casi può essere la prima manifestazione di malattia. Chiu ha stimato che il 35-44% di tutti gli episodi di CF durante il picco della stagione influenzale sono dovuti all' influenza  Ma un ampio spetto di manifestazioni di tipo neurologico sono imputabili al virus influenzale come encefaliti, encefalomieliti, Guillain-Barré, sindrome di Reye, mieliti trasverse, encefalopatia necrotizzante acuta. Le encefaliti infantili dovute all' influenza sono particolarmente comuni in Giappone a partire dagli anni 90. Un aumento di questa patologia si è avuto con il virus H1N1 pandemico.

Le miositi sono complicanze rare tipicamente a carico dei bambini di età scolare.

Le miocarditi, relativamente rare con i ceppi stagionali, sono state un riscontro più comune nel corso dell' ultima pandemia, con i bambini insieme ai giovani adulti particolarmente colpiti.

Le ammissioni in terapia intensiva sono un evento che non infrequentemente interessa i bambini, almeno secondo uno studio durato 5 anni in 10 stati americani, da cui risulta che il 12% dei bambini ospedalizzati richiede un' assistenza nelle UTI, il 21% di quelli con polmonite.



Mortalità



La maggior parte dei decessi imputabili all' influenza avvengono tra le persone più vulnerabili, in primis gli anziani. Le morti per influenza in ambito pediatrico sono un evento fortunatamente raro, ma caratterizzato da un impatto devastante sulle famiglie e sull' ambiente sociale di riferimento. Deve far riflettere che un esito così drammatico si poteva evitare con un vaccino del costo di pochi euro. Negli USA esiste ormai da più di 10 anni un programma di sorveglianza attivo che rende le morti per influenza soggette a notifica obbligatoria e sottopone ad un protocollo di indagini approfondite i bambini a cui non è stato possibile fare la diagnosi prima della morte. Il programma è partito nel 2003, dopo una stagione che è stata segnata da 153 decessi con diagnosi confermata (0,88 x 100000), la metà di questi in bambini precedentemente sani. Nell' anno della pandemia sono stati registrati 358 bambini americani morti per influenza H1N1. Di 301 di cui erano disponibili i dati di storia clinica, il 32% non apparteneva a categorie a rischio e aveva un' età media più elevata (9,4 vs 6,2) rispetto ai bambini deceduti per influenza stagionale. Un elevato tasso di mortalità infantile è stato registrato anche in Argentina, 10 volte superiore rispetto ai livelli di mortalità degli anni precedenti .

In una revisione dei decessi avvenuti negli USA, negli anni dal 2004 al 2012, si contano 830 casi fatali, nel 43% si trattava di  bambini perfettamente sani e, significativamente, il 35% è deceduto a casa o durante il tragitto in ospedale, con caratteristiche proprie di un decorso fulminante. E' altamente probabile che casi analoghi si possano verificare anche in altri paesi, ma non vengano riconosciuti in quanto manca la consapevolezza di questa entità e non vengono adottate tecniche di indagine che permettono di risalire alla reale causa di queste morti. 

Da notare che negli USA, pur disponendo di sistemi sofisticati di indagine, si ritiene che un caso su due sfugga alla diagnosi, il che rende ancora più drammatico il bilancio in termini di giovani vite spezzate.



Costi sociali



L' impatto dell' influenza nei bambini va al di là della sola malattia clinica, ma comprende anche i costi socioeconomici correlati, come quelli dovuti ai farmaci, alle visite ambulatoriali, alle ospedalizzazioni nonché costi indiretti come assenze da scuola e perdita di giornate lavorative da parte dei famigliari, sia per le necessità di assistenza al minore sia per malattie secondarie degli stessi famigliari. Il costo medio di un bambino ricoverato per influenza negli USA è di 5402 $, in Europa 3000 €. In uno studio australiano basato sulla popolazione di 234 bambini, i costi dell' influenza sono risultati più alti rispetto ad altre malattie respiratorie. 

Una parte consistente dei bambini ammalati non viene portato in visita e tuttavia causa perdita di giorni di scuola e di lavoro da parte dei genitori. In uno studio a Seattle 3 bambini su 4 che si ammalano non vengono condotti dal dottore, ma portano comunque ad elevati costi sociali: per ogni 100 bambini seguiti nello studio, le malattie di tipo influenzale determinano 20 giorni di perdita lavorativa  Una  media di 1.3 giorni lavorativi in Italia  e 1.4 in Grecia  sono persi per ogni bambino che si ammala di influenza. In uno studio finlandese la durata media di perdita di lavoro di famigliari di bambini di 1-3 anni è stata di 2 giorni. In un altro studio finlandese il costo complessivo dell' influenza nei bambini da 6 mesi a 13 anni, con un tasso medio di attacco del 16%, è risultato pari a 39 milioni di €, senza considerare i bambini con meno di 6 mesi. Più di due terzi di questo costo dipende dalla perdita lavorativa dei famigliari.

In Italia il costo medio per ogni bambino ammalato di influenza è stato valutato in 130 euro, più alto del 32% rispetto a quello sostenuto per bambini con sintomi di ILI ma negativi al test per l' influenza. 

Un problema rilevante da considerare è anche l' eccessivo e spesso non necessario utilizzo di antibiotici, soprattutto alla luce delle aumentate resistenze che riscontriamo in questi ultimi anni, che stanno erodendo lo spettro d' azione di questi farmaci. In uno studio italiano, riguardante 901 bambini sani con meno di 15 anni, più del 70% dei soggetti con diagnosi confermata di influenza ha ricevuto un trattamento antibiotico.  In uno studio tedesco su bambini ricoverati il 40% ha ricevuto un trattamento ritenuto inappropriato con antimicrobici.





I dati di cui disponiamo sull' impatto dell' influenza nella popolazione pediatrica risultano parziali e disomogenei, con il contributo maggiore proveniente dagli Stati Uniti, ma in questi ultimi anni c' è stato un maggiore impegno di paesi europei come Finlandia, Grecia, Francia e la stessa Italia nel documentare l' entità del fenomeno anche nelle realtà più vicine a noi. Il quadro che si sta delineando con chiarezza è non solo quello di un ruolo determinante dell' alta morbilità pediatrica nella circolazione e nella propagazione del virus, ma anche di rilevanti ricadute sulla salute di questa fascia della popolazione, specialmente nei bambini più piccoli, che si riflettono in costi sanitari e sociali di grande portata. Purtroppo queste conoscenze rimangono confinate a singoli gruppi di ricerca e non riescono a tradursi in una consapevolezza diffusa nel contesto sociale in cui viviamo. Emergenze sia pure rilevanti ma occasionali, come quelle legate ai numerosi casi di meningite registrati in questo ultimo periodo, creano una grande eco mediatica e una mobilitazione da parte delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni sanitarie con la proposta attiva di piani di vaccinazione estesi a larghi strati della popolazione, mentre l' emergenza che si rinnova ogni anno dovuta all' influenza e alle sue ricadute non suscita altrettanto dibattito e non spinge alla ricerca di soluzioni che si spingano oltre i tradizionali slogan sulle generiche misure di attenzione e i piani di protezione riservati alle sole categorie maggiormente a rischio.





















sabato 18 aprile 2015

Il virus dell' influenza visto da vicino: aspetti strutturali e ciclo vitale



Con questo articolo vi propongo un viaggio nel mondo microbiologico  per scoprire la natura ed il comportamento del protagonista di questo blog.

CENNI STORICI


Il virus influenzale è conosciuto fin dai tempi antichi, se è vero che già Ippocrate 2400 anni or sono ne dà una pur sommaria descrizione. Periodicamente emergono ceppi caratterizzati da maggiore capacità di diffusione e letalità che sono all’ origine delle pandemie. La prima di cui si hanno riferimenti storici certi avvenne nel 1580, quando il virus si diffuse dall’ Asia fino all’ Europa, attraverso l’ Africa. La pandemia del 1918 è considerata il secondo evento infettivo più luttuoso nella storia dell’ umanità, dopo la peste nera, responsabile di ca. 50-100 milioni di morti. Il virus è stato isolato per la prima volta nei maiali nel 1931, mentre bisogna attendere il 1933 per il primo isolamento negli esseri umani.


STRUTTURA




Il virus influenzale è del tipo a singola catena di RNA e appartiene alla famiglia degli Orthomixoviridae.
Le nucleoproteine presenti all’ interno permettono la distinzione di tre diversi tipi: A, B e C. I virus di tipo A sono responsabili di gran parte delle infezioni umane e di quasi tutte le infezioni animali. Sono costituiti da un capside che presenta nella parte esterna un rivestimento sfingolipidico acquisito dalle membrane delle cellule ospiti, rafforzato all’ interno dalla matrice (proteina M1) e attraversato da canali ionici ( proteina M2). All’ interno è presente il materiale ribonucleoproteico, con 8 filamenti di RNA a polarità negativa, codificanti ciascuno per 1 o 2 diverse proteine, 3 polimerasi ( PB1, PB2 e PA) la nucleoproteina (NP) e le proteine non strutturali ( NS1 e NS2). Un ruolo chiave, sia nella virulenza che nel riconoscimento da parte del sistema immunitario, è dato dalle due proteine di membrana, l’ emoagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA).
Queste determinano la sottotipizzazione dei virus di tipo A: si conoscono 17 varianti di HA e 10 di NA con diverse possibili combinazioni. Tutti i sottotipi infettano gli uccelli, eccetto l’ H17N10 di recente identificazione, che sembra esclusivo dei pipistrelli.


CICLO INFETTIVO E REPLICAZIONE *



Il virus influenzale, come tutti i virus, è un parassita intracellulare obbligato. Condizione necessaria per la sua replicazione e patogenicità è l’ ingresso nella cellula ospite, che avviene tramite legame dell’ HA ai recettori di membrana della cellula. L' HA è costituita da tre distinte catene. Come forma, possiamo paragonarla ad un fungo composto da due parti: il fusto e la testa globulare. L’ HA riconosce l’ acido sialico, che è un piccolo zucchero presente nella parte terminale delle glicoproteine presenti sulla superficie cellulare.
E’ importante sapere che esistono varie forme chimiche di acido sialico e che i vari ceppi di influenza si diversificano in base al loro diverso grado di affinità ad esse.
L’ acido sialico si lega al galattosio, che è lo zucchero che subito lo precede, mediante due possibili tipi di legame, denominati alfa (2,3) e alfa (2,6), a seconda che il carbonio in posizione 2 dell’ acido sialico si leghi al carbonio in posizione 3 o 6 del galattosio.
L’ alfa (2,6) è il tipo di acido sialico maggiormente espresso dalle cellule dell’ albero respiratorio umano, mentre l’ alfa (2,3) è presente solo nelle cellule ciliate e nelle cellule epiteliali delle basse vie respiratorie. Questo ha importanti implicazioni, soprattutto per quanto riguarda l’ infezione umana da parte di ceppi aviari. Il virus H5N1 altamente patogeno è in grado di replicarsi nell’ epitelio respiratorio per la presenza di alcune cellule che permettono un legame di tipo alfa (2,3), ma il mancato legame ai recettori alfa (2,6) ostacola la sua diffusione ad altri soggetti. I virus pandemici del 1918, del 1957 e del 1968 e del 2009 si legano invece preferibilmente ai recettori delle alte vie respiratorie.
I suini possiedono cellule dell’ epitelio tracheale con recettori di entrambi i tipi egualmente distribuiti e rappresentano i cosiddetti “mixing vessel” in quanto, potendo essere attaccati da virus sia umani che aviari, permettono il rimescolamento del materiale genetico e la creazione di nuovi ceppi con potenziale pandemico.
La NA ha la funzione preminente di permettere il rilascio dei nuovi virioni dalle cellule, ma recenti studi hanno messo in evidenza il suo ruolo anche nel consentire al virus di attaccarsi alle cellule, staccando l' acido sialico presente sulle glicoproteine dello strato mucoso che potrebbe "confondere" l' HA, che deve agganciarsi unicamente all' acido sialico delle proteine cellulari. Oseltamivir (tamiflu) e zanamivir (relenza) sono analoghi strutturali dell' acido sialico e si legano strettamente al sito di legame della NA, impedendole di svolgere le sue funzioni.
Una volta che l’ HA si è agganciata al recettore, il virus penetra sfruttando il meccanismo dell’ endocitosi, lo stesso che permette l’ ingresso alle comuni molecole. Non appena la vescicola endosomiale che contiene la particella virale si sposta verso il nucleo, il ph al suo interno si abbassa per l’ attivazione di un canale che pompa protoni (H+) all’ interno. Quando il ph endosomiale raggiunge il valore di 5, l’ HA subisce una modifica conformazionale che porta all’ esposizione del peptide di fusione, una piccola sequenza idrofobica che si inserisce nella membrana del corpuscolo endosomiale, facendo sì che questa si fonda con il rivestimento virale. In questa maniera il materiale genetico può fuoriuscire nel citoplasma della cellula e da qui raggiungere il nucleo. I filamenti di RNA non sono liberi, ma sono avvolti dalle proteine, in particolare dalla proteina della matrice (M1). Qui entra in gioco il canale ionico (proteina M2) che pompa ioni H+ dentro il capside virale, consentendo all’ RNA di sganciarsi. La proteina M2 è il bersaglio degli antivirali di prima generazione ( come l’ amantadina). La resistenza a questi composti avviene grazie ad una modifica aminoacidica.


Un passaggio cruciale è quello in cui l’ HA espone il peptide di fusione. Affinché questo avvenga, l’ HA deve essere spaccata ( cleavage) dalle proteasi cellulari. L’ HA è in realtà un trimero, formato da 3 catene uguali. Il punto di spaccatura si trova alla base dell’ HA, vicino alla membrana capsidica. Una volta innescata la reazione, l’ HA si divide in due distinte subunità: HA1 e HA2. La parte N- terminale di HA2 contiene la sequenza denominata peptide di fusione. L’ importanza di questo processo è data dal fatto che in assenza di cleavage, cioè delle idonee proteasi cellulari che lo innescano, il virus risulta inoffensivo. Negli uomini la replicazione virale avviene solitamente nell’ albero respiratorio, perché solo in questa sede sono presenti le proteasi necessarie. I virus del tipo H5 e H7 altamente patogeni subiscono invece il cleavage anche da parte di tessuti come fegato, reni, cervello e questo spiega la loro maggiore virulenza. Anche il virus del 1918 condivideva questa proprietà.
Una volta che l’ RNA virale è entrato nel nucleo, funziona come uno stampo per la produzione di mRNA. Il processo avviene per opera delle polimerasi virali ( PA, PB1 e PB2). Le polimerasi sono macchine tutt’ altro che perfette e spesso commettono errori nell’ assemblare le catene di mRNA, inserendo nucleotidi sbagliati. A differenza dei virus a DNA, i virus a RNA non possiedono l’ esonucleasi, che è un’ enzima che serve a riparare gli errori, determinando un numero elevato di mutazioni: si calcola un’ incidenza di 1 ogni 1000-1000000 nucleotidi. Se consideriamo che il genoma di un virus contiene 10000 basi, la mutazione di 1 ogni 10000 significa che ogni genoma ne possiede almeno una. Se da un singolo virus nascono 10000 nuove particelle virali, questo tasso di errore implica che si sono prodotti 10000 mutanti. Qui sta la ragione del grande successo dei virus a RNA e della loro capacità di evolvere con grande rapidità. Da questa proprietà discende il concetto di quasispecies. Quando ci viene detto che in una determinata stagione circolano 1 o 2 ceppi virali, non dobbiamo pensare ad essi come ad una popolazione omogenea, ma ad un vasto numero di particelle differenti, con la conseguenza che la prevalenza di alcune varianti rispetto ad altre può spiegare in parte il diverso impatto su individui e popolazioni differenti.
La produzione dei nuovi virioni avviene tramite la translazione dell' mRNA nei nuovi componenti proteici che poi devono essere assemblati. HA e NA e M2 sono sintetizzate da parte dei ribosomi adesi al reticolo endoplasmatico (RE). Una volta prodotte vengono inserite nella membrana del RE e quindi trasportate tramite vescicole fino alla superficie cellulare dove si fondono con la membrana cellulare e in essa si inseriscono già nella giusta posizione. I nuovi filamenti di (-)RNAs sono prodotti nel nucleo e poi trasferiti nel citoplasma dove si uniscono alle proteine PA, PB1 PB2 e NP per formare il complesso ribonucleoproteico. Queste proteine, insieme a M1( matrice), vengono prodotti da parte dei ribosomi liberi. M1 andrà a formare la struttura interna del capside virale.
I nuovi virioni sono poi rilasciati attraverso un processo di gemmazione, mediante il quale le nuove particelle protrudono dalla superficie fino a staccarsi. Appena formate queste tenderebbero ad attaccarsi alle molecole di acido sialico presenti sulla superficie cellulare, se non fosse per la NA che rimuove le molecole di acido sialico e permette lo sganciamento permettendo l’ inizio di un nuovo ciclo infettivo.


Gran parte dei contenuti e delle immagini sono tratti dal sito di Vincent Racaniello, professore di Microbiologia e Immunologia presso il College of Physicians and Surgeons della  Columbia University

domenica 12 aprile 2015

Influenza e malattie batteriche invasive: una plausibile spiegazione della recente epidemia di meningiti in Toscana










Le cronache di questi giorni hanno dato ampio risalto ai numerosi casi di meningite da meningococco, alcuni purtroppo mortali, che hanno colpito la Toscana e in particolare la zona di Empoli, nell’ arco di poche settimane. All’ origine  di molti di questi casi è stato individuato il ceppo C. Questo dato ha sorpreso gli esperti, in quanto appare in controtendenza rispetto all’ andamento degli ultimi anni, in cui vi è verificata una riduzione fino a numeri prossimi allo zero dei casi imputabili a questo ceppo, a fronte di un aumento delle patologie legate al ceppo B, contro il quale fino a poco tempo fa non esisteva il vaccino. Casi analoghi si sono registrati anche in altre regioni. Una possibile spiegazione, al vaglio degli esperti, è che all’ origine di questo inopinato aumento ci sia il virus influenzale. Vediamo di capire quali sono i retroscena di questa suggestiva e attendibile ipotesi.



L’ influenza è una causa importante di morbilità e di mortalità. Si calcola che nel mondo ogni anno muoiano 5-600000 persone in conseguenza diretta o indiretta dell’ infezione, con ampie oscillazioni nel numero a seconda dei diversi ceppi e della presenza di varianti più aggressive, come quelle protagoniste degli eventi pandemici. Solo una parte di questi decessi viene però ufficialmente riconosciuta, in quanto molti avvengono come conseguenza di patologie  che trovano nel virus influenzale l’ elemento scatenante, che però non viene ricercato o individuato e non figura così nelle certificazioni di morte. Solo l’ analisi a posteriori delle tabelle di mortalità, mediante sistemi statistici, consente di ricostruire l’ entità del fenomeno. Una causa importante di decessi collegabili all’ influenza sono dovuti alle infezioni batteriche che trovano nel virus influenzale un prezioso alleato, in grado di aprire  le porte agli organi interni e di rinforzarne l’ azione patogena.

Il corpo umano ospita un gran numero di specie batteriche, definite nel loro complesso microbioma. Molti di questi batteri sono commensali che vivono in simbiosi con l’ organismo che li ospita, a cui forniscono utili principi nutritivi e protezione nei confronti di ceppi patogeni. In alcuni casi sono presenti minime quantità di batteri pericolosi, come ad esempio nella pelle o nel rinofaringe, senza che ciò apporti gravi conseguenze, a meno che non si creino le condizioni adatte ad un loro ingresso in siti normalmente sterili e ad un aumento della loro aggressività. Il virus influenzale è considerato uno dei principali artefici di questa evoluzione.

Il primo ad accorgersi della maggiore incidenza di polmoniti in occasione delle epidemie di “grippe” è stato Laennec a Parigi nel 1803. In Germania nel 1890  c' è stata la prima osservazione microscopica di germi patogeni complicanti l’ influenza, durante la pandemia russa dell’ 1889-1893, con l’ isolamento di streptococchi in 7 su 45 pazienti deceduti.

Durante la pandemia del 1918, che è stata responsabile di 50 milioni di morti, più del 90% dei decessi è stato attribuito a sovrainfezioni batteriche ( in particolare da streptococcus pneumoniae)  sulla base dei dati relativi ai riscontri autoptici dell’ epoca, relativi a 10000 soggetti deceduti in 15 paesi, nonché dell’ esame diretto dei tessuti conservati di 58 militari morti nel corso della pandemia.  Situazioni analoghe sono state riportate, anche se su scala minore, anche per le pandemie del 1957 e del 1968. I ceppi pandemici sono contraddistinti da una maggiore virulenza e  dalla capacità di determinare un danno maggiore, rispetto ai loro cugini stagionali, agli epiteli bronchiali e polmonari facilitando così l’ ingresso e l’ azione dei ceppi batterici. Nel corso dell’ ultima pandemia il riscontro di sovrainfezioni batteriche è stato minore ( 25-56% con una mortalità del 14-46%) rispetto alle precedenti pandemie, ma questo può dipendere da un più frequente e precoce uso di antibiotici ad ampio spettro nelle forme più gravi.

Un problema emergente in questi ultimi anni è quello dei batteri resistenti agli antibiotici. Un esempio emblematico è rappresentato  dalle infezioni stafilococciche che, dopo aver subito una riduzione, sono tornate prepotentemente alla ribalta grazie alla diffusione dei ceppi  meticillino resistenti (MRSA), frequente causa di sovrainfezioni mortali, come nei bambini. Gli stafilococchi sono ospiti innocui che vivono sulla nostra cute e nelle narici, ma causano complicazioni catastrofiche quando si associano all’ infezione influenzale. Durante la stagione 2006-07 negli Usa 11 soggetti su 33 ( 33% ) con polmonite da MRSA, in cui è stata eseguita la ricerca virale, aveva un’ infezione influenzale antecedente.





Il pneumococco ( streptococcus pneumoniae) è un’ importante causa di morbilità e mortalità globale e gli studi degli ultimi anni hanno messo in evidenza la sua frequente associazione con l’ influenza. Il pneumococco colonizza in modo transitorio le superfici mucose delle alte vie respiratorie senza per questo provocare un danno all’ organismo ospite. 8 bambini  su 10 sono colonizzati dal pneumococco in qualche periodo della loro vita, molto meno lo sono gli anziani (10%). Lo sviluppo della malattia invasiva si verifica grazie al superamento delle difese immunitarie di superficie e la disseminazione nella cavità dell’ orecchio medio ( otite), nelle basse vie respiratorie (polmonite), nel sangue ( sepsi) e nelle meningi ( meningiti). Insieme a molti fattori legati all’ ospite, all’ ambiente e a fattori microbici, i virus respiratori, in particolare l’ influenza, risultano avere un ruolo importante nel promuovere l’ attività del batterio. Sebbene i virus stagionali abbiano una minore carica lesiva nei confronti degli epiteli che rivestono le vie respiratorie rispetto ai ceppi pandemici, riescono comunque a favorire l’ azione dei germi patogeni con  modalità che la ricerca ha in parte chiarito in questi ultimi anni.

Nel 2002 McCullers, un pediatra dell’ ospedale di Menphis,   ha messo in evidenza come l’ infezione del virus influenzale seguita, dopo una settimana, dall’ inoculazione del pneumococco portava alla morte il 100% dei topi, mentre questo non avveniva se l’ infezione pneumococcica precedeva quella influenzale. Un possibile meccanismo veniva individuato nella maggiore espressione di un recettore ( PAFr) che facilita l’ attecchimento del batterio. Sempre McCullers nel 2003 ha messo in luce il ruolo dell’ antigene neuraminidasi che, asportando i residui di acido sialico, favorisce l’ attecchimento del pneumococco  e inoltre, secondo uno studio recente, fornisce un nutriente che ne favorisce la proliferazione.

La compresenza del virus influenzale è in grado di risvegliare il batterio dallo stato quiescente in cui si trova all’ interno del biofilm e di attivarne i processi metabolici, consentendogli di raggiungere siti normalmente sterili, anche grazie alla ridotta velocità di clearance mucociliare.

Un ruolo chiave è giocato dagli squilibri del sistema immunitario provocati dall’ infezione virale. Da una parte si verifica  una inibizione delle cellule deputate a difenderci da germi potenzialmente pericolosi, come i neutrofili  e i macrofagi, dall’ altra il virus influenzale scatena una risposta infiammatoria eccessiva, con un’ aumentato reclutamento degli stessi neutrofili  e la produzione di  citochine   e di interferone di tipo I, che rendono le cellule suscettibili all’ attacco microbico, con la mediazione di vari attivatori dell’ infiammazione come i  toll-like receptors (TLR) e le proteine chinasi attivate dal mitogeno (MAP).

Il virus influenzale non solo facilita la colonizzazione e l’ invasione da parte del pneumococco, ma ne favorisce anche la trasmissione tra un soggetto e l’ altro, come dimostrato nei furetti, anche se non è stato chiarito come questo avvenga. L’ effetto  scatenante della malattia influenzale non si limita ai periodi immediatamente successivi all’ infezione, ma si prolunga per parecchie settimane, se non addirittura mesi, a causa della desensibilizzazione delle cellule sentinelle polmonari ai ligandi dei TLR, associata ad una ridotta produzione di citochine.

I germi patogeni non si limitano a trarre beneficio della presenza del virus influenzale, ma ricambiano il favore esercitando un azione di rinforzo  nei confronti dell’ attività virale, ad esempio innescando un processo importante nel ciclo di replicazione virale che consiste nella spaccatura ( cleavage) dell’ emagglutinina ad opera delle proteasi batteriche, come è stato dimostrato con gli stafilococchi,  oppure con la stimolazione da parte delle tossine batteriche della proteina PB1-F2, che ha un ruolo importante nel determinare il processo infiammatorio e nell’ indurre e aggravare la polmonite batterica successiva all’ infezione influenzale. Inoltre  la coinfezione riduce la risposta delle cellule di tipo B con una minore produzione di Ac contro il virus influenzale.

 Tutti questi meccanismi stanno ad indicare che il virus influenzale attiva una cascata di eventi che progredisce con il passare del tempo e  che coinvolge componenti delle nostre difese innate e adattative che, se da una parte portano alla risoluzione del quadro clinico, dall’ altra possono predisporre all’ attacco da parte dei batteri, con il massimo della vulnerabilità  tra il 7° e il 12° giorno. Questo dato si correla con quello epidemiologico delle infezioni invasive da pneumococco nei bambini, nei quali il rischio più elevato si registra a due settimane dall’ infezione influenzale.


Diversi studi hanno dimostrato una correlazione temporale tra l’ epidemia di influenza e malattie batteriche invasive ( in particolare il pneumococco):  nella popolazione dei bambini sudafricani  durante le epidemie stagionali,  nella popolazione di adulti in Spagna nel periodo della pandemia da virus H1N1, ancora  negli adulti per quanto riguarda le malattie invasive e nei bambini limitatamente alle  polmoniti in uno studio sulla popolazione danese, nella popolazione inglese, anche se l' aumento non è stato rilevante.

Negli USA, durante il periodo pandemico, si è verificato un aumento significativo di casi di malattia invasiva, ma non superiore rispetto  alle stagioni influenzali precedenti.

Si è osservato che sono soprattutto i ceppi a basso potenziale invasivo a determinare quadri severi da confezione sia negli adulti sia nei bambini al di sotto dei 5 anni, in particolare in assenza di malattie pregresse.

In realtà, a differenza degli studi sui casi individuali,  la maggior parte degli studi di popolazione non ha dimostrato una correlazione altamente significativa tra epidemie influenzali e malattie pneumococciche invasive e questo ha per diverso tempo sconcertato i ricercatori.
Per chiarire questa apparente contraddizione, un gruppo di studiosi dell’ università del Michigan ha usato un nuovo approccio, riuscendo a dimostrare che l’ influenza aumenta di 100 volte il rischio di polmonite pneumococcica nel singolo individuo. Analizzando i dati delle ospedalizzazioni per influenza e polmonite pneumococcica tra il 1989 e il 2009, ha trovato la prova convincente della maggiore suscettibilità alla complicazione polmonare nei soggetti affetti dall’ influenza nella settimana precedente. Durante i picchi di influenza stagionale il 40% delle malattie pneumococciche è ascrivibile all’ influenza, mentre su base annua tale percentuale varia dal 2 al 10% dei casi.



Nei riguardi della recente epidemia di casi di meningite C in Toscana, un' ipotesi verosimile è che ci possa essere alle spalle l’ epidemia di influenza, che quest’ anno ha colpito in maniera severa  proprio la Toscana, come pure altre regioni italiane.

Del resto  il meningococco, alla pari del pneumococco e di altri germi, è presente spesso come ospite inoffensivo nelle vie respiratorie di molti soggetti (10%) senza essere causa di problemi, a meno che si creino delle condizioni che ne favoriscano la patogenicità, quali quelle che l' influenza è in grado di produrre.   Vi sono degli antecedenti nella letteratura scientifica che documentano come epidemie di meningite a livello di singole istituzioni come strutture per malati  e ambienti militari  o di aree geografiche siano state precedute da epidemie di influenza con infezione documentata da test di laboratorio.

Una verifica sul piano degli studi epidemiologici si è avuta con uno studio in Francia. Lo scorso anno è stato pubblicato un articolo sulla rivista PloS ONE, frutto del lavoro di esperti della CDC, che ha messo in luce come, in 19 stagioni su 20 analizzate, il picco di influenza ha preceduto di ca 2 settimane il picco delle infezioni meningococciche con un’ alta correlazione statistica, soprattutto dopo le epidemie di influenza legate ai ceppi H3N2 e H1N1 stagionali, in misura minore con i virus H1N1-pdm09, B e Respiratorio Sinciziale. Su base annuale si è calcolato che  il 12,8% delle meningiti da meningococco siano da attribuire alla precedente malattia influenzale, durante il picco di stagione tale percentuale sale al 59%.


Il messaggio finale degli autori di questo studio, ma anche quello con cui voglio chiudere questa rassegna, è che la vaccinazione contro il meningococco rimane un’ arma fondamentale di prevenzione, ma altrettanto importante è la vaccinazione contro l’ influenza, soprattutto nei bambini sani.