domenica 11 gennaio 2015

La pandemia del 1918: i misteri che la circondano e le implicazioni per il futuro








“Non amo fallire, non amo lasciare le cose a metà”. Con queste parole il ricercatore di origine svedese Johan Hultin, emigrato nello stato americano dell’ Iowa quando aveva 25 anni e che aveva dedicato molte energie alla ricerca del virus responsabile della pandemia del 1918, esprimeva il proprio rammarico per non essere riuscito nell’ impresa. Eppure l’ idea di dissotterrare dei corpi ben conservati nel permafrost dell’ Alaska, suggerita a Hultin da un noto virologo di nome William Hale, sembrava promettente. Grande è stata l’ emozione quando, grazie  al permesso della matriarca di un  villaggio che nel 1918 aveva visto più del 90% della popolazione sterminata dal virus,  furono riportati alla luce i resti di una bambina di appena 12 anni, con i capelli neri intrecciati e abbelliti da nastrini rossi. Le analisi successivamente compiute sui resti della bambina e di altre persone disseppellite non portarono però a nessun risultato. Era l’ anno 1951. Negli anni successivi Hultin si trasferì in California, dove fece carriera come patologo, ma nel suo animo restava l’ amarezza per l’ insuccesso.

Alla fine degli anni 90 un altro ricercatore, immigrato dalla Germania negli Stati Uniti all’età di 9 anni a seguito della famiglia e che all’ epoca conduceva un laboratorio di ricerca presso l’ Istituto Patologico delle Forze Armate ( AFIP), riuscì a pubblicare sulla rivista Science, dopo che era stato respinto dalla rivista Nature, un articolo su quella che riteneva  una parte della sequenza dell’ emagglutinina e di altri proteine del virus. Il risultato era stato possibile grazie all’ impiego di nuove tecnologie di indagine molecolare su resti  di un soldato di nome  Roscoe Vaughn, morto il 26 Settembre del 1918 a Camp Jackson, nella Carolina del Sud. Lo scienziato si chiamava JefferyTaubenberger.

Il mondo scientifico accolse tuttavia lo studio con scetticismo. L’ articolo capitò tra le mani di Hultin, che si rese immediatamente conto che con l’ aiuto  delle nuove tecniche sarebbe stato possibile resuscitare il suo antico progetto. Si mise subito in contatto con Taubenberger, che in quel periodo si trovava in difficoltà per la scarsa disponibilità di materiale di ricerca e gli assicurò di essere in grado di procurargliene dell’ altro. Hultin tornò nuovamente in Alaska e questa volta riuscì a riesumare il corpo di una donna obesa, che soprannominò Lucy ( come lo scheletro di donna trovata nel 1973 e che aveva permesso di far luce sull’ evoluzione umana). I suoi organi interni, polmoni, cuore, fegato e reni, erano ben conservati grazie all’ involucro di grasso che li aveva ben protetti.

Rientrato a casa spedì subito i tessuti a Taubenberger. Pochi giorni dopo gli arrivò la tanto attesa notizia che era stato trovato il virus, le cui sequenze si dimostrarono coincidenti  con quelle dei soldati. 8 anni più tardi sarà  decifrato l’ intero codice genetico del virus più terribile della storia, che ha contagiato 1/3 della popolazione del pianeta e ha causato almeno 50 milioni di morti, in quello che è considerato uno degli eventi più catastrofici nella storia dell’ umanità.


La ricostruzione della composizione del virus, che pure ha dato un forte impulso alla ricerca, non è però servita a chiarire i molti misteri che lo circondano. Innanzitutto le sue origini rimangono poco chiare. Purtroppo nei primi anni del novecento non solo non esistevano gli strumenti di sorveglianza epidemiologica di cui disponiamo oggi, ma non si conosceva neppure il virus, che sarà identificato solo nel 1931. E’ probabile che l’ evento iniziale sia stato uno scambio di materiale genetico (quello che in termini tecnici si chiama riassortimento) tra virus appartenenti a specie diverse, con un ruolo importante giocato da un virus di tipo aviario. Gli uccelli selvatici rappresentano il serbatoio principale dell’ influenza e dai continui incroci tra virus aviari e di altri specie si formano virus dalle  caratteristiche mutate, alcuni con la potenzialità di provocare i grandi eventi pandemici. Non sappiamo neppure da quale parte del mondo sia emerso. L’ ipotesi principale è che abbia avuto origine in Asia, al pari delle due successive pandemie, forse portata in Europa da 96000 lavoratori cinesi che lavoravano al servizio delle truppe britanniche e francesi nei vari fronti di guerra, ma altre ipotesi puntano al Kansas, nella contea Haskell, dove si manifestò uno dei primi focolai. Quello che sappiamo è che  nella primavera del 1918 il virus iniziò a manifestarsi e poi si diffuse in modo irregolare negli Stati Uniti, in Europa e probabilmente in Asia, con focolai circoscritti in cui si segnalavano un grande numero di ammalati ma senza conseguenze particolarmente rilevanti. Questa prima fase durò circa 6 mesi. 
Con uno sforzo della fantasia, proviamo ad immaginare una riunione dell’ OMS, che  allora non esisteva ancora, agli inizi dell’ estate del 1918. All’ ordine del giorno la discussione sull’ opportunità o meno di dichiarare una nuova pandemia, alla luce dei rapporti che provenivano da varie parti del mondo su un nuovo virus che faceva ammalare tante persone senza però causare un’ elevata letalità, almeno secondo gli standard dell’ epoca. Secondo molti pensatori illuminati dei nostri tempi non si sarebbe dovuto fare un proclama di quel tipo, che avrebbe creato solo un allarme ingiustificato nella comunità internazionale e tuttavia… arriva l’ autunno successivo e  si scatena il finimondo. Credo che quest’ aspetto meriti una qualche riflessione.
 La letalità schizzò al 2,5%, con punte che arrivarono, in certi paesi,  all’ 8-9% mentre altri risultarono meno colpiti. Cosa abbia causato questo repentino cambiamento costituisce un altro dei  misteri di questo virus. Non si sa se possa essere imputato alle diverse condizioni socio-ambientali e climatiche o ad una successiva mutazione. Quest’ ultima ipotesi non può essere asseverata in quanto gli unici campioni del virus risalgono alla seconda ondata, non ne è rimasto nessuno risalente alla prima fase. Quello che è certo è che il virus si diffuse rapidamente in gran parte del mondo, grazie agli spostamenti delle truppe verso e di ritorno dai vari fronti di guerra. Questa rappresentò probabilmente la novità più sostanziale rispetto alle epoche più remote in cui le malattie tendevano invece a propagarsi molto più lentamente, seguendo le rotte commerciali o i viaggi dei pellegrini e un anticipazione di quella che sarà la modernità, con il mondo che diventerà sempre più piccolo man mano che le comunicazioni e  i trasporti renderanno le diverse parti del nostro pianeta sempre più vicine. La guerra e le desolazioni e le miserie che da questa derivarono furono certamente tra gli elementi che contribuirono al bilancio drammatico. Le truppe, costrette a vivere in condizioni di affollamento e indebolite dalle condizioni di vita estreme a cui erano sottoposte, furono decimate dal virus, che però si diffondeva con altrettanta facilità e con conseguenze non meno gravi nei contesti metropolitani lontani dagli scenari bellici. Un altro elemento che contribuì grandemente al drammatico impatto di quella epidemia fu la mancanza di conoscenze e di strumenti di intervento sanitario che verranno acquisiti solo in periodi successivi, parliamo di un’ epoca in cui non esistevano ancora gli antibiotici che avrebbero potuto debellare le frequenti sovrainfezioni batteriche, le cure di tipo intensivo che consentono al giorno d’ oggi di mantenere in vita pazienti con stati avanzati di insufficienza respiratoria ed erano solo agli albori le conoscenze relative alla diffusione e alla prevenzione delle malattie infettive. Ma le devastazioni della guerra e  le carenze sanitarie non sono in grado di spiegare quello che fu uno degli effetti più drammatici e che  più ha sconcertato e interrogato le generazioni successive: a subire l’ impatto maggiore non furono i soggetti fragili come i bambini e gli anziani  ma quelli che appartenevano alla classe più forte e più sana della popolazione, vale a dire i giovani nella fascia tra i 18 e i 30 anni.
Come si vede nel grafico, mentre negli anni che precedono e seguono la pandemia l’ aspetto è del tipo a “U”, con le estremità che sono le fasce estreme e l’ avallamento le fasce intermedie della popolazione, nel 1918 l’ aspetto della curva diventa del tipo a “W”, in cui alle due estremità si aggiunge una terza punta, costituita appunto dai giovani. Il  rilevante contributo alla mortalità di questa classe ha determinato anche un’ anomalia nella curva che rappresenta l’ aspettativa di vita dal 1900 in avanti che, come si vede, cresce in maniera abbastanza regolare nel corso degli anni ad eccezione del 1918, in cui fa segnare un significativo arretramento. Le possibili spiegazioni sono diverse. Un aspetto da mettere prima di tutto in evidenza e che è poco conosciuto riguarda l’ aggressività del virus della spagnola. Molti sono portati erroneamente a pensare che ammalarsi con quel virus significasse  contrarre una malattia che, se anche non portava alla morte, comportasse quadri più severi di quelli che  conosciamo e sperimentiamo oggi. In realtà non era affatto così, visto che il 95% delle persone che si ammalavano, almeno nei contesti più progrediti, avevano quadri indistinguibili rispetto a quelli delle normali influenze e solo una percentuale relativamente piccola contraeva forme severe. Quest’ aspetto può suscitare meraviglia, ma in realtà è una delle ragioni del successo del virus influenzale, anche nelle sue forme più severe,  perché grazie ad esso si diffonde ampiamente e velocemente. Un ‘ ipotesi che è stata avanzata per giustificare il tragico bilancio della pandemia è la cosiddetta tempesta di citochine, che sta ad indicare un movimento incontrollato di componenti importanti del nostro sistema immunitario che, non riuscendo a contenere l’ infezione, porta ad una risposta infiammatoria talmente smisurata da produrre un danno consistete all’ organismo. Le persone più giovani avrebbero una maggiore propensione a questo tipo di fenomeno proprio per la maggior forza delle loro difese immunitarie. Certamente questo è un meccanismo importante, che è stato dimostrato anche in anni recenti in relazione ai casi gravi che si sono verificati, ad esempio con l’ ultima pandemia, ma non è in grado di spiegare del tutto quello che è successo. Un altro elemento fondamentale, che ha  contraddistinto anche tutte le pandemie che si sono susseguite nel corso del ventesimo secolo, compresa quella recente del 2009, è il cosiddetto age shift, che rappresenta la tendenza dell’ epidemia a risparmiare gli anziani grazie al “ricordo” di un’ infezione contratta  nelle loro età più verdi e a colpire invece le persone più giovani, che risultano invece del tutto indifese nei confronti della nuova variante. A questo proposito Worobey, Han e Rambaut hanno avanzato un interessante ipotesi in un articolo pubblicato nella rivista PNAS (1). Gli autori hanno ricostruito la storia dei ceppi dominanti a partire dal 1830 e hanno scoperto che nel 1889 si è verificata un' epidemia, la cosiddetta influenza russa, dovuta al ceppo H3N8. Il virus della spagnola apparteneva invece al tipo H1N1, che si era costituito dall' unione di ceppi umani mescolati a ceppi aviari. I nati dopo il 1889 non avevano anticorpi nei confronti di questo virus. Dopo il 1900 si sarebbe diffuso un altro virus del tipo H1N1 e questo spiegherebbe perché i ragazzi al di sotto dei 18 anni siano stati meno colpiti. I giovani tra i 18 e i 29 anni si sarebbero invece trovati in una finestra di vulnerabilità. Lo studio si basa sulla scoperta che i geni dell' influenza evolvono a velocità diverse a seconda delle specie animali. Nei polli le variazioni sono molto veloci mentre nei maiali molto lente. Tenendo conto di questa differenza e ricalcolando l' evoluzione dei ceppi di virus per ciascuna delle specie portatrici, il team di ricercatori ha potuto ricostruire il quadro della letale epidemia del 1918. Questa non sarebbe stata causata da un'improvvisa "migrazione" di geni aviari verso il ceppo dell'influenza umana, ma da uno spostamento progressivo a partire dal 1900. In un ceppo già esistente, dunque, si sarebbe verificata una variazione nel tipo di emoagglutinina, rendendo il virus particolarmente virulento.



Quali implicazioni ci possono essere per il futuro? 

Dopo i “falsi allarmi” dell’ influenza aviaria H5N1 e della pandemia del 2009, che hanno tenuto con il fiato sospeso le popolazioni mondiali per poi rivelarsi molto meno gravi delle aspettative, si è diffuso nella gente un sentimento di incredulità e scetticismo che porta a sottostimare potenziali rischi futuri. In verità è bene non abbassare la guardia perché, se è vero che il mondo è molto meglio attrezzato nell’ affrontare nuove emergenze di quanto lo fosse nel 1918, va tenuto presente che le condizioni che possono portare all’ emergenza di nuovi ceppi virali potenzialmente pericolosi e alla loro rapida diffusione sono probabilmente maggiori adesso di quanto lo erano agli inizi dello scorso secolo  e le armi che abbiamo a disposizione sono appena sufficienti a controllare una pandemia di modesta portata come quella del 2009, dove comunque si è assistito a gravi ritardi e lacune nei sistemi di preparazione e di contenimento. Laddove c’è stato un aumento di poco superiore rispetto alla media nel numero di casi gravi, anche in paesi non sottosviluppati come in Australia nel 2009 o in Inghilterra nel 2010, i rispettivi sistemi sanitari sono stati messi duramente alla prova e sono arrivati al limite del tracollo. Rispetto al 1918 abbiamo si i vaccini, ma si è visto come la tecnologia di produzione sia ancora farraginosa e non consenta di renderli disponibili in tempi utili. Gli antibiotici potrebbero essere in grado di fare la differenza e certamente potranno farla, ma stiamo attenti al preoccupante fenomeno delle resistenze che potrebbe renderli armi spuntate. Le tecniche di supporto vitale sono ugualmente un’ arma importante, ma sono limitate nella loro consistenza numerica e appena sufficienti a tenere sotto controllo situazioni che si discostino di poco dall’ ordinario, non sono invece in grado di far fronte a eventi di portata maggiore. Per tutti queste ragioni è importante potenziare gli strumenti di sorveglianza, in modo che siano in grado di rilevare con anticipo sufficiente situazioni di pericolo in qualsiasi parte del mondo si verifichino e predisporre piani pandemici che si possano applicare concretamente alle diverse situazioni e che prevedano una fase di preparazione e di coinvolgimento attivo di tutte le figure deputate alla loro attuazione e non che vengano calati dall’ alto, come è successo nel 2009, senza che nessuno sappia quali siano i  compiti e i ruoli che spettano ad ognuna delle parti coinvolte.
Il sogno di Hultin si è alla fine realizzato, ma l' incubo per l' umanità non si è dissolto.











1)Michael Worobey,  Guan-Zhu Han, and Andrew Rambaut Genesis and pathogenesis of the 1918 pandemic H1N1 influenza A virus PNAS 2014 111 (22) 8107-8112; published ahead of print April 28, 2014, doi:10.1073/pnas.1324197111

 

 






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